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Ane

Ane

REGIA
David Pérez Sañudo

CON
Patricia López Arnaiz, Jone Laspiur, Mikel Losada, Aia Kruse, Luis Callejo

ANNO
2020

NAZIONALITÀ
Spagna

DURATA
100 min.

PREMI

  • Premi Goya 2021: Miglior attrice protagonista (Patricia López Arnáiz), Miglior attrice esordiente (Jone Laspiur), Miglior adattamento della sceneggiatura (David Pérez Sañudo e Marina Parés)
  • Festival de San Sebastián 2020: Premio del Cinema Basco
  • Premi Forqué 2020: Miglior attrice (Patricia López Arnáiz)
  • Premios Feroz 2020: Miglior attrice (Patricia López Arnáiz)

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Ane

Ane

Ane, opera prima del regista di Bilbao David Gómez Sañudo, finora esperto e pluripremiato autore di cortometraggi, segue le orme di Lide, una giovane madre che ha problemi ben più grandi del suo lavoro di guardia giurata per alcune opere di ingegneria che scontentano parte della popolazione locale. Un giorno, quando si alza, sua figlia – Ane, il cui nome dà il titolo al film – non è a casa, né ha dormito nel suo letto.

Da quel momento la scomparsa diventa una specie di fantasma: nessuno la vede, né i personaggi né lo spettatore, e la sua assenza pesa come una figura spettrale. La si conosce solo da ciò che gli altri dicono di lei. L'ambiente sociale rarefatto aumenta questo senso di assenza. E si percepisce che Lide, che ha chiesto aiuto a Fernando, suo ex compagno e padre di Ane, ha paura di quella figlia invisibile... ma perché?

Vincitore di ben tre Premi Goya 2021 (Miglior attrice protagonista per Patricia López Arnáiz, Miglior attrice esordiente per Jone Laspiur, Miglior adattamento per Sañudo e Marina Parés), il film passa dal mistero al dramma politico per esporre questioni sociali, psicologiche e profondamente intime.

La Nueva Ola //

Il regista David Pérez Sañudo risponde questa intervista per Cineuropa:
Guardando il suo film è inevitabile pensare al cinema dei fratelli Dardenne…

Sì, mi piace molto la loro chiaroveggenza nel raccontare problemi molto globali partendo da casi molto specifici. Ma c’è un tipo di cinema più simbolico di cui mi sento in qualche modo anche parte. Non mi piace molto lavorare con i riferimenti, ma mi piacciono Mia Hansen-Love e Mar Coll (‘Tres días con la familia’ è un film che mi appassiona). Da un’altra parte, sono stato un allievo di Enrique Urbizu, era il mio insegnante, quindi ho anche ereditato qualcosa dal suo cinema, che è molto diverso. È nell’intersezione tra due modi così diversi di fare cinema che mi sento a mio agio: al confine tra dramma e thriller. Il confine tra i generi mi affascina.

Da dove viene la sua preoccupazione per le questioni affrontate nel film, come la genitorialità e l’incomunicabilità?
L’educazione è un tema molto sentito in casa mia e in quella di Marina Parés, la co-sceneggiatrice del film: siamo entrambi figli di insegnanti, e l’idea dell’autorità è davvero interessante per entrambi: l’autorità che un padre rappresenta per suo figlio, ma anche il punto di vista del figlio sui genitori. È un asse su cui esplorare i temi della fiducia e della comunicazione, perché ogni relazione comunicativa è reciproca. Nella relazione tra padre/madre e figlio, questa relazione reciproca ha un ulteriore livello di sfumatura, per quell’autorità che un padre o una madre hanno su un bambino. Questo solleva una questione affascinante per il cinema: quello che tutti supponiamo che un padre o una madre debbano fare. Non è un caso che la protagonista sia una vigilante: mentre veglia su un luogo specifico, trascura la propria casa. La stessa cosa succede a un insegnante quando è fuori casa: aiutano i figli di altre persone, ma non vegliano sui propri. Ci colpiva questa idea di assenza, la differenza tra la cura fisica e mentale, ed essere trascinati in direzioni diverse. Questo è il contesto in cui volevamo esplorare cosa significa veramente comunicare e crescere un bambino.

Perché ha deciso di ambientare il film nel 2009 e tra le proteste contro il treno ad alta velocità?
Conoscevamo bene i conflitti sorti all’epoca: in quel momento, ogni tipo di attivismo aveva una diversa connotazione nei Paesi Baschi. Era un materiale succoso per parlare della ricerca di una madre verso sua figlia, una ricerca non solo fisica ma anche di identità: si chiede, chi è mia figlia? Quegli anni diedero a questa ricerca un’interessante sfumatura di pericolosità e criminalità. E ci piace parlare di qualcosa di fondamentale come una linea ferroviaria o qualsiasi altra opera di ingegneria civile, come una strada, che è progettata per collegare due punti, ma allo stesso tempo crea divisione. Sta lì il simbolismo del film, che è tutto sulla comunicazione: al centro della storia ci sono due personaggi, separati da una linea.

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