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El sur

Il sud

REGIA
Víctor Erice

CON
Omero Antonutti, Sonsoles Aranguren, Icíar Bollaín, Lola Cardona

ANNO
1983

NAZIONALITÀ
Spagna

DURATA
92 min.

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El sur

Il sud

El sur, film diretto da Víctor Erice, racconta la storia di Augustín (Omero Antonutti), uno scienziato rabdomante che vive con sua moglie Julia (Lola Cardona) e sua figlia Estrella (Sonsoles Aranguren) a La Gaviota, nel nord della Spagna. Man mano che la ragazzina cresce, l’uomo cerca di trasmetterle il suo dono: l’abilità di divinare l'acqua attraverso un pendolo. Lei, tuttavia, vede in suo padre una figura misteriosa e pensa che le stia nascondendo qualcosa riguardo il suo passato. Quando sua nonna va a trovarli, viene fuori che, durante la guerra civile, Augustín ha litigato duramente con suo padre giurando di non fare mai più ritorno al sud. Il mistero si infittisce quando Estrella lo vede entrare ripetutamente in un cinema per la visione di film interpretati da un'attrice di nome Irene Rios alla quale è legato il segreto del rabdomante…

Clásicos //

Ogni luogo modella gli animi che l’hanno calpestato, li insegue ovunque fuggano.
Il Sud (“sur” in spagnolo) evocato dal titolo è da ricercarsi nella mappa sentimentale di un individuo, oltre che in quella geografica di una nazione: la Spagna.

Tratto dal romanzo di Adelaida García Morales, il film è la delineazione mnemonica degli ultimi anni di un uomo, Augustin, da parte della figlia, Estrella. Sua la voce narrante, ormai matura, che disegna un arco di ricordi inscritto fra infanzia e prima adolescenza, turbate dalle ceneri della guerra civile e dai riflessi del regime franchista.
L’ opera cinematografica, a differenza di quella letteraria, s’interrompe poco prima della partenza di Estrella per il Sud. Il regista Victor Erice avrebbe voluto girare una seconda parte, ma per una serie di vicende produttive non vi riuscì. Lo spettatore potrebbe non dispiacersene: la corrispondenza del finale con l’inizio di un grande viaggio s’inserisce perfettamente nello splendore misterico del racconto.

 

Autunno 1957. Nella sua camera in penombra l’adolescente Estrella ascolta le voci concitate al di fuori: Augustin è scomparso. Rassettando le coperte scopre sotto il cuscino un pendolo; mentre il sole sorge realizza che il padre non tornerà mai più.

Segue la vivida rappresentazione di una sorta di ricordo inventato, un aneddoto che in realtà la protagonista non può aver vissuto. La camera è la stessa di poco fa, così come la luce dell’alba, ma nel letto è distesa una donna incinta. Le siede accanto Augustin, che osservando il pendolo oscillante davanti a sé predice il sesso e il nome della nascitura.

In alcune storie gli oggetti sono vivi, congiungono e rivelano. E’ il caso dello strumento che Augustin, medico, indovino e rabdomante, usa per le sue sperimentazioni.

La magia, elemento molto insistito nel film, definisce il rapporto fra padre e figlia, la distanza quasi sensitiva, la tenerezza impacciata, l’elettricità dei contatti in una quotidianità scarna di confidenze.

Dopo il flash onirico inizia la parte dedicata alla bambina Estrella. Si è appena trasferita con la famiglia in una “terra di nessuno” del Nord, fra campagna e città. Il casolare, conosciuto come “Il gabbiano”, si erige alla fine di una lunga strada alberata, che Augustin ha denominato “La frontiera”.

La protagonista trascorre le giornate fra le lezioni impartite dalla madre, una delle tante insegnanti discriminate dalla dittatura, e i dolci pedinamenti nei confronti del padre, sorta di divinità consenziente. Egli risponde con la solita sorridente compostezza, con la resistenza di chi teme, attraverso i gesti e le parole, di lasciar sfuggire una traccia del proprio segreto.

Per Estrella lo sfingeo passato paterno ha un’importanza esigua, ma un fascino immaginifico. L’ignoto Sud, abbandonato dai genitori prima della sua nascita, nelle fantasie infantili viene dipinto su modello di esotiche cartoline, confinato sino all’ altra estremità del globo.

La vigilia della prima comunione due “aliene” di quella zona oscura del mondo oltrepassano “La frontiera”: sono la madre e la vecchia balia di Augustin. Quest’ultima, del tutto indifferente all’ etichetta comportamentale del freddo Nord, produce sulla piccola un’ impressione assolutamente nuova. Con la parlantina sfacciata, il piglio esuberante e confidenziale, la saggezza illetterata unita a una conoscenza tattile della vita, Milagros importa un inebriante inedito calore. Grazie alle sue rivelazioni Estrella viene a sapere che Augustin era stato un ribelle repubblicano, e che dopo la fine della guerra civile e la vittoria di Franco, i rapporti già acri col padre filofascista erano diventati insostenibili, tanto da spingerlo a lasciare per sempre la terra natale.

Il giorno della cerimonia costituisce una pennellata materica nel ritratto di Augustin. Genitore per lo più assente, eppure sommessamente essente, pare rinunciare alla trappola del ruolo, all’uniforme del contegno, non riuscendo tuttavia a combattere i tremori del cuore. Forse ateo, con ogni probabilità anticlericale, assiste al rito religioso dal fondo della chiesa, con l’unico intento di rendere felice la figlia.

Al pranzo di festeggiamento Lui e Lei ballano un paso doble, incuranti della seriosità sensuale che la danza richiederebbe. Si muovono goffamente a tempo di musica, guardandosi l’ un l’ altro, vicini. E’ l’ unica parvenza di abbraccio di cui siamo testimoni, un momento che sentiamo di dover custodire.

Il mistero del Sud sembra svelato, ma lo spettro di una donna interviene a sbriciolare le convinzioni. Estrella scopre fra le carte del padre alcuni schizzi di un volto femminile, accompagnati dalla trascrizione spasmodica di un nome: Irene Rios.

La lanterna magica

Una sera, di ritorno da scuola, Estrella nota la moto del padre parcheggiata vicino ad un cinema; nel film in programmazione recita proprio Irene Rios. La bambina non può entrare in sala, così lo sguardo registico l’ abbandona, concedendo a noi, a noi soltanto, di spiare Augustin.

Si pensi al potere orrorifico del cinema, ora non meno di allora, quando il pubblico fanciullo si estasiava davanti ai giochi di prestigio della lanterna magica. Il trucco, raffinatosi, rimane lo stesso: sconquassare le cose del mondo, rimescolarne gli elementi, generare una magnifica bugia che abbia un bacillo di verità. Ed ecco il pericolo: credere di veder proiettata la vita.

Chi abbia visto il primo lungometraggio di Erice, “Lo spirito dell’ alveare”, ricorderà gli occhi pesti di una bimbetta folgorati dalle immagini sul grande schermo, poi turbati dall’ invadenza della finzione filmica. Anche lo sguardo di Augustin, seppur navigato, non ne è immune.

I defunti “resuscitano” nelle istantanee che li hanno cristallizzati da vivi. “E’ morto e sta per morire“: così Roland Barthes descriveva la foto di un condannato poco prima dell’esecuzione. Augustin è percosso da una simile paradossale emozione: la donna amata è un fantasma di luce incorporeamente mobile, (cinematografico), ma anche memorialmente paralizzato (fotografico). Nella messa in scena del film l’addio è stato e sta per essere.

Una terra per restare

Prima di rientrare a casa, armato di carta e penna, Augustin si sistema al tavolino di un bar per scrivere una lettera ad Irene Rios (nome d’ arte). Le parole sprigionate dall’ inchiostro giungono a noi ma non alla figlia, che di nascosto scruta la scena al di là della finestra.
Quando Estrella si decide a bussare sul vetro, il padre reagisce “come fosse stato sorpreso in fallo“.

La risposta di Irene Rios arriva, e finisce fra le mani della madre di Estrella, inaugurando il clima di tensione che inquinerà “Il gabbiano” negli anni a venire.
Irene, stando alle parole della sua lettera dolente, è stata messa da parte a vantaggio di “altre persone”, probabilmente le stesse che ruotavano intorno agli ideali politici di Augustin. Ha ricercato a lungo il posto “da cui non si vorrebbe più partire“, senza trovarlo. Ha sconfitto la commozione inflitta dal passato, ed è fortemente decisa ad andare avanti.

Se Augustin impersona l’indugiare ostinato fra i riverberi di qualcosa che fu e mai più sarà, Irene emblematizza il vivere che cinicamente resiste, deciso a non voltarsi, per quanto rassegnato all’ idea che la felicità, una terra per restare, non esista.

Qualche giorno dopo Augustin tenta la fuga verso una destinazione sconosciuta. Forse il Sud?
Attende il treno nella camera di un ostello, ma si perde in un sonno profondo fino all’alba. Rinsavito dal sogno di una svolta impossibile, torna a casa.

Un pomeriggio, esasperata dall’opprimente situazione familiare, Estrella si nasconde sotto un letto. Mentre la madre la cerca dappertutto, il padre, vera mira della protesta, ribadisce la propria presenza con dei colpi di bastone sul pavimento, ma tace. Estrella intende all’improvviso cosa Augustin vuole dimostrarle: “il suo dolore era molto più grande del mio“.

Quando d’un colpo la miopia dell’ infanzia si attenua, e i dettagli del mondo vengono esumati dalla foschia, forse è già in quel lampo che crescere diviene invecchiare.
L’innocenza di Estrella si frange in pochi giorni di costernato disincanto. Per lei Augustin non è più una torre d’avorio, un avaro dispensatore di prezioso affetto. E’ una fragile creatura di sangue, sessualità, angoscia.

L’infelicità paterna è sempre spaventosa, forse perché nell’immaginario comune la sofferenza, così come la sopportazione, è un vestito che le madri infilano con più disinvoltura.

Strappato da sotto i piedi il tappeto di una serenità apparente, padre e figlia si ritrovano spinti agli angoli opposti della stessa gabbia. Il loro legame, né più flebile né più forte di prima, sta diventando un duellare fra pari, un gioco tristemente più autentico. “Vera la foglia secca più del fresco germoglio“, scriveva Montale.

Te quiero

Estrella s’allontana in sella alla bicicletta lungo “La frontiera”, per poi riemergere, attraverso una dissolvenza incrociata, con la fisionomia di un’ adolescente. Gli anni sono passati (siamo di nuovo nel 1957), si è fatta grande, da sola, “senza pensare troppo alla felicità“. Sta vivendo la stagione delle prime cotte, quelle lievi e un po’ buffe, le classiche cotte da graffito. Sul muretto che costeggia la casa uno spasimante deluso ha scritto “Te quiero” (“Ti amo”), con tanto di stellina e faccina. Estrella reagisce con la stizza maliziosa tipica dell’età, ma anche con la dolce accondiscendenza che hanno spesso gli adulti di fronte alle ragazzinate innocenti. In un certo qual senso, indossa la stessa bonaria rigidità del padre.

Una sera, uscendo dal cinema dove proiettano un altro film con Irene Rios, Augustin adocchia Estrella mentre si nasconde per non farsi vedere. Il giorno dopo decide di portarla al ristorante, segnando un piccolo evento straordinario, la prima vera occasione di dialogo. Solo in qualche istante padre e figlia sembrano scoprirsi, con cautela da equilibristi. Avvertiamo la forza inquieta delle voci docili, il loro sfociare pacato che infonde disagio, amarezza, affanno. Non c’è nessuno sfogo, nessun sollievo, solo la debolezza frustrante della parola.

Tutto inizia con toni distesi, persino allegri; Augustin ha visto il “Te quiero” sul muro, ne è divertito, ma soprattutto commosso: è bello “dire a tutto il mondo ciò che ti piace“. Quando inevitabilmente la conversazione verte su Irene Rios, alle domande di Estrella Augustin risponde come può, sforzandosi di rimanere intero. Quest’uomo solo, di una solitudine che non è più scelta, ma condanna, suscita indicibile tristezza. Qual è stato il dramma più intimo della sua vita? Forse il rimpianto di non aver saputo amare.

Irene ed Estrella hanno questo in comune: sono state amate maldestramente. L’una, trascurata per una vana lotta di libertà, si è fatta simbolo tragico di un’ epoca, ricordo struggente che non diviene mai carne. L’altra, incaricata in quanto figlia di sanare il vuoto, ha donato e preteso affetto, concorrendo essa stessa alla tirannia dei sentimenti.

Caso vuole che nella sala a fianco alcuni musicisti inizino a suonare il paso doble “En er mundo“, proprio quello della prima comunione. Lui e Lei si separano per sempre sulle note che un tempo li congiunsero come non mai.

Estrella partirà per il Sud, e si chiederà a lungo se avrebbe potuto salvare il suo papà subacqueo, che di rado riemergeva dagli abissi per tornare alla riva, dove era tanto atteso; dove si è lasciato spegnere, come animale arenato.
Noi non lo vedremo mai, el Sur, non conosceremo mai i dettagli spinosi del passato di Augustin: non ci resta che immaginare. La storia è meravigliosa proprio perché schiusa, sfumata come il cielo sopra “La frontiera”, singhiozzata come ogni reminescenza. Piacerà a chi non disdegna i puntini di sospensione, quando davvero contengono l’inafferrabile, o il futuribile.

Postilla

Lo spettatore potrebbe sbuffare di fronte alla regia nient’ affatto eclatante, solo disciplinata ed efficace. Ma limare il significante, senza svilire il significato, è cosa che riesce ai pochi. Ci sono poi caratteri, nell’esigua produzione di Erice, che si possono dir suoi. Lo spiare l’infanzia con tocco carezzevole, mai affettato, la capacità di indicarne lo sgretolamento con pochi cenni puntuali. L’adorazione del mezzo cinematografico, inclusi i rischi che esso comporta. Le tonalità dei luoghi che cadenzano il mutare incessante, il magnifico conflitto fra buio crepuscolare e polverosa luce mediterranea. Infine, si sarà già intuito, la volontà di marcare la connessione fra spazio e tempo: le distanze si misurano in passi ed ore.

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