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Pa negre

Pane nero

REGIA
Agustí Villaronga

CON
Francesc Colomer, Marina Comas, Nora Navas, Laia Marull, Eduard Fernández, Sergi López

ANNO
2010

NAZIONALITÀ
Spagna

DURATA
108 min.

PREMI:

  • 9 Premi Goya 2011, tra cui Miglior Regia e Miglior Film
  • Nora Navas Miglior Attrice al Festival di San Sebastian del 2010

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Pa negre

Pane nero

Negli anni del dopoguerra, nella Catalalogna rurale, Andreu, figlio di un militante di repubblicano, trova nel bosco i cadaveri di un uomo e un bambino. Le autorità franchiste attribuiscono le morti a suo padre, che perciò è costretto a fuggire, ma il piccolo Andreu non si lascia persuadere, e per conto suo va alla ricerca dei veri responsabili.

La Nueva Ola //

“Un ritratto verace, complesso, profondo ed estetico della barbarie del dopoguerra: gli abusi dei vincitori e la sopravvivenza terrorizzata dei vinti.[…] È il film più solido ed emotivo che ha mai realizzato questo regista, sempre inquietante” (Carlos Boyero)

In Pa Negre di Agustí Villaronga (12 premi Gaudì, 9 premi Goya) tratto dal romanzo di Emili Texidor, c’è un mistero da svelare e un solo indizio, l’ultima parola magica sussurrata da un bambino colpito a morte: Pitorliua, che è il nome di un uccello, il soprannome di un fantasma della Resistenza, la foto di un angelo di carnevale. Il suo è un cinema umanista, politico, di profondissimo rigore morale, proprio solo di pochi grandi autori del passato, eppure sempre “sporcato” dalla contemporaneità. Un mistero da svelare e un solo indizio, l’ultima parola magica sussurrata da un bambino colpito a morte: Pitorliua, che è il nome di un uccello selvatico, il soprannome di un fantasma della Resistenza, la foto di un angelo di carnevale.

Il pane nero della miseria (quello bianco è concesso, con i confetti, solo alla merenda dei ricchi) Pa Negre in catalano, compare nei titoli di testa scavato come negli anelli di un albero, nei segni del tempo. Poi una foresta esoterica, figure incappucciate, distruzione e sangue senza enfasi: Agustí Villaronga è unico nel saper cogliere l’inquietudine di un microcosmo, quasi un medioevo rurale straniante, impregnato di morte, sempre bene annidata nel corso della vita e delle stagioni.

Filma un villaggio dopoguerra immerso nella nebbia e nel sonno della ragione, i mestieri che spezzano la schiena, il dolore che non si fa mai clamoroso, tenuto a freno dalla semplice necessità di sopravvivere; le favole narrate davanti al fuoco che restituiscono, trasfigurata, le verità indicibili. Ricostruisce in un sogno l’orgia di violenza di una massa bruta tra campanacci e fiaccole, che punisce un angelo-uccello “malato, vizioso” colpevole di portare fiori alle donne e amare gli uomini.
Il suo è un cinema umanista, politico, di profondissimo rigore morale, proprio solo di pochi grandi autori del passato, eppure sempre sporcato di contemporaneità; dalla parte dei bambini, dei marginali, dei dolenti, dei “perdenti che non hanno diritto neppure a una riga in fondo alle pagine della storia”; eppure un cinema trascendentale, plurale e perturbante, dove si galleggia come in acquario di costante ambiguità, dove si avverte lungo la schiena, a tradimento, il sudore freddo (il capolavoro Tras El Cristal, del 1987).
Filma il finire della notte con la luce delle lanterne, rotto da suono di una sirena, come una processione laica e miserabile; eppure è soltanto la sveglia quotidiana verso la fabbrica. I suoi ragazzini in canotta che spiano certi misteri di cui sono capaci solo gli adulti – passano in un soffio dall’ira al desiderio, come niente – non assomigliano in nulla a quelli disegnati in china gotica di Guillermo del Toro, che pure ne La Spina del Diavolo gioca sulle stesse ambientazioni e sulla stessa epoca e in Il Labirinto del Fauno sceglie di sposare totalmente una visione fiabesca, anche se nera. Tutto qui è più semplice e più vero: la violenza, come un virus, reagisce chimicamente e con effetto immediato sulla pelle dell’innocenza. Andreu (la promessa Francesc Colomer) a 11 anni si trova per la prima volta faccia a faccia con la morte violenta ed è un coetaneo a metterlo sulla strada giusta. L’universo adulto che lo circonda gli fa quasi una colpa della sua percezione acuta: smettila di curiosare, o finirai cieco come quel re nei racconti della nonna“.

Se la storia la scrivono sempre i vincitori, tocca ai bambini riscriverla; ma essi sono crudeli anche tra di loro. La ragazzina che bolla come comunisti Andreu e Núria coglie subito l’essenza di esiliato di Pitorliua, questo nome maledetto: poco importa che non sia un mostro vero, lo è diventato, come il Gollum, a furia di vivere nascosto nelle grotte.

Andreu non si imbatte nel fantasma delle leggende, invece con un giovane ragazzo bellissimo che corre nei boschi: gli lascia del cibo come si fa con una creatura fantastica. Sarà anche tubercolotico, ospite dei monaci vicini, ma racconta di avere le ali e di essere pieno di rabbia. È allora che si comincia a volare, quando sale la febbre, e volare vuol dire andare in un altro mondo. E poiché gli angeli e gli uccelli sono liberi di dispiegare le ali e scegliere quando morire, più tardi la mdp rapidissima, quasi subliminale, elegante, si arrampica verso il cielo, quella porzione che si vede tra le cime, nella macchia, dove il sole lancia un lampo accecante e sonnolento.

Villaronga, quasi come l’enorme Victor Erice, ma col un suo personale sguardo crudelissimo, fino al non tollerabile, cupo e sensuale, sa fare di uno sprazzo di luce – una porzione di pelle, una porta che si richiude, una natura morta sul tavolo – un evento.

La madre di Andreu, Florencia (Nora Navas, meravigliosa): è l’unica che almeno in parte acconsente a parlargli come a un adulto, almeno alla resa dei conti, di fronte alla spregevole incarnazione burocratica di un potere condiscendente e morboso (un odioso, ottimo Sergi López). L’amore per il marito le sfugge dagli occhi, ma sa bene che amare qualcuno non vuol dire che questi sia innocente. Il padre (Roger Casamajor, intensamente sfuggente) bellissimo, eroe, amichevole, quasi un fratello maggiore, dovrà perdersi lontano: è incredibile quanti film negli ultimi anni si mettano sulle tracce di un padre sempre perduto.

E non a caso la ragazzina monca è la più matura di tutti, Núria (la selvaggia Marina Comas) l’orfana, sa che il suo, di padre, è morto suicida, anche se la villosa fasulla protezione degli adulti glielo nasconde. Accetta che il suo sesso sia “il nido dell’usignolo” e ha conservato la sua mano troncata dalla guerra in uno scrigno, come un tesoro infantile e beffardo.

L’unica che ha già compreso quanto moriamo poco a poco. Andreu la seguirà in questa consapevolezza con un altro gesto che nasce nell’infanzia e si riveste di un significato troppo adulto: inumidire il vetro con il fiato, ad annebbiare la figura di una madre curva che si abbandona per sempre.

(Sentieri selvaggi)

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