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Simón del desierto

Simón del deserto

REGIA
Luis Buñuel

CON
Claudio Brook, Enrique Álvarez Félix, Hortensia Santoveña, Silvia Pinal, Luis Aceves Castañeda

ANNO
1965

NAZIONALITÀ
Messico

DURATA
40 min.

PREMI:

  • Festival di Venezia 1965 Leone d’argento, Premio della critica internazionale FIPRESCI

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Simón del desierto

Simón del deserto

Da molti anni il monaco Simón vive su di una colonna in pieno deserto. Si nutre di poche cose offertegli da alcuni frati di un convento vicino, viene venerato dalla gente che accorre a vederlo e a implorare grazie, fa miracoli e allo stesso tempo subisce tentazioni di ogni sorta da parte degli uomini e del maligno. Lo stilita riesce sempre a individuare l'insidia del male e a rifiutarla, forte della preghiera e di un animo temperato dall'ascetismo più severo. Un giorno, all'improvviso, un jet lo trasporta dal V secolo al XX, in piena New York, in un night dove Simón segue assente, dubbioso, il ritmo sfrenato delle danze.

Clásicos //

Buñuel

I tre quarti d’ora scarsi bastano a Buñuel per imbastire uno spettacolo surrealista di satira nera. La colonna dello stilita, simbolo statico dell’ascesi, è il perno attorno al quale ruota una giostra di divertimenti macabri, libere associazioni terroristiche, allusioni pornografiche (le mammelle della capra), blasfemie volutamente banali (i sei anni, le sei settimane e i sei giorni di permanenza sulla vecchia colonna), aggressioni alla morale in forma di gag.
Sotto si muove una tipica folla di mostri bunueliani: storpi e straccioni (i miserabili che non sanno cosa farsene delle parole di un santo) da una parte, monaci equivoci dall’altra. Satana (Silvia Pinal), dipinto secondo le concezioni popolari più comuni (sembianze femminili provocanti, metamorfosi, volgarità, apparizioni e sparizioni, perversione sessuale), dirige questo sabba.

La seduzione del santo e il disfacimento dei suoi ideali sono i temi centrali anche di “Simon del deserto“. Dopo che con “Nazarin” e “Viridiana” si erano smontati il messaggio sociale e la carità, la mira si sposta sulle pratiche del digiuno, della penitenza, della meditazione e del distacco dal mondo. Il resoconto sul fallimento della morale cristiana si completa in questa parabola contro l’ascetismo.

La povertà di mezzi esalta le doti di artigiano di Buñuel. Il regista esule sfrutta a proprio favore questa situazione. Mentre l’arido paesaggio messicano offre uno scenario ideale per realizzare le sue parodie dissacratorie sulla cristianità, il vento in costante sottofondo (la tentazione), la sabbia e il deserto (la realtà), il cielo (l’elevazione a cui Simon aspira, un fondale ironicamente solenne e che cambia a seconda del caso) costituiscono un ambiente tanto simbolico (il deserto è la storia) quanto concreto (la miseria).

L’estro eversivo si scatena attraverso le fantasiose trasformazioni del diavolo. Buñuel parla con la voce del diavolo. Si diverte nel tormentare e ridicolizzare il suo protagonista (si cala nei panni di un monaco indemoniato). All’oratoria insistente dell’eremita, risponde con nonsense verbali, discorsi sulle feci, calunnie, bestemmie. E spesso si sofferma sulle sue piaghe (assieme masochismo a feticismo).

La legge che governa gli episodi è al solito la legge del paradosso. Il film si apre sotto questo segno: Simon che riceve in dono una nuova colonna più alta da un ricco, passa tra la folla dei miserabili come un Cristo inutile che si appresta a cambiare croce, ma una volta salito sulla nuova colonna che lo dovrebbe avvicinare più a Dio hanno inizio i rapporti con il demonio e con i pellegrini.

Ognuno di questi è testimone della vanità del suo misticismo: un ladro monco chiede a Simon di restituirgli le mani, egli lo accontenta e il miracolo riesce, ma con le nuove mani l’uomo torna assieme alla famiglia a zappare la terra mollando una sberla alla bambina (la realtà è cinismo e miseria e non ne esiste un’altra); anche l’esorcismo di un monaco riesce, ma una volta concluso, gli altri caricano il corpo dichiarando che finiranno a esorcizzarlo a modo loro. Entrambi i prodigi sono accolti con la stessa indifferenza, coloro che assistono tornano alle loro cose come se niente fosse accaduto.

Tra le scene trovano spazio una sequenza onirica (Simon sogna due amori terreni: quello carnale e quello materno), un dialogo serio con un monaco, perciò comico (egli non capisce neppure questo) e tutta una serie di caricature iconografiche: l’agnello e la capra, le tre tentazioni di Cristo, la permanenza sulla colonna come versione surrealista della crocifissione, dove la madre di Simon è una madonna sadicamente umanizzata e partecipe silenziosa al calvario infruttuoso del figlio.

Il sabba potrebbe continuare ancora per ore, ma a un certo punto il demonio (Buñuel) lo interrompe: il transito di un aereo, prima e unica risposta dal cielo, provoca un gigantesco stacco spazio-temporale che trasporta i due protagonisti all’interno di un locale notturno del XX secolo a New York.

La soluzione (brusca e prematura, a causa del produttore che costringe il regista a troncare il film) è tutta nel contrasto tra queste due dimensioni: il deserto irreale e arcaico che è il luogo del santo, il locale concreto e contemporaneo che è il luogo dell’ateo. In sostanza Buñuel trascina Simon dal primo al proprio, che è poi quello di ognuno di noi e di tutti i giorni. L’inferno che gli impone è un normale luogo di divertimento, di sfogo e di noia quotidiani, in cui la condanna consiste nel parteciparvi. Qui lo stilita siede con una barba e una pipa fuori moda, insultato dalla donna (il demonio), annoiato impotente ubriacone incapace di divertirsi. Dopo essersi fermata a quel tavolo, la macchina da presa riprende la sua carrellata sui balli scatenati che proseguono senza fine.

Il nichilismo di Buñuel compie le sue danze sopra i deserti della morale e delle superstizioni. Le cerimonie blasfeme e ossessive di un ateo anarchico attorno alle immagini e alle scritture cristiane, sono una dichiarazione di profondo disprezzo nei confronti del ridicolo della condizione dell’uomo, perso in una gabbia di convenzioni da lui stesso create. L’impotenza e la depravazione (sessuali o ideologiche) dei suoi protagonisti (il santo, la vergine, il borghese) diventano l’emblema di questa contraddizione, così come le azioni e i riti che svolgono. Il cinema di Buñuel esorta il bisogno di violare tutti i divieti ed egli prova a soddisfarlo nel modo più violento, costringendo i suoi personaggi a farlo con lui.
Nell’ordine presunto delle cose fa irruzione con il proprio irrazionale. Attorno al tema centrale (il bersaglio da scardinare) si aprono ovunque molteplici parentesi che svaniscono senza più chiudersi, lasciando squarci abissali nella narrazione, baratri che trovano la loro foce in una dimensione d’incubo in cui, stravolti, sono riversati tutti gli elementi del reale.

Tutta l’opera di Buñuel è in fondo tesa tra i due ambienti antitetici rappresentati simbolicamente nell’epilogo, tempi o luoghi correlati tra loro come realtà e sogno e come essi intercambiabili. Imprigionato dentro l’assurdità del presente che ne porta i segni, il riso devastatore dell’artista non può però che trovare il suo massimo sfogo in quel passato millenario che lo precede, medioevo di simboli e stigmate arcani.

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